Perchè il termine Open, apertura, giunge oggi ad una così vasta diffusione in ambito accademico? E che cosa intendiamo, quando diciamo “Open”?
Come in tanti altri momenti della storia, un termine racchiude in sé un movimento culturale, una tensione verso valori umani e sociali essenziali che orientano (o dovrebbero, per lo meno) la trasformazione della pratica. Parliamo in questo volume di pratica accademica o scholarship. Ma che cosa si vuole trasformare, sotto l’etichetta Open, termine ormai quasi abusato?
Il dibattito sulla necessità di “aprire” i processi e prodotti del lavoro accademico (ricerca e didattica) ha preso piede in tutto il mondo ed è arrivato in Italia con crescente forza. Per quanto riguarda la scienza, le politiche e le successive indicazioni all’interno del programma quadro per la ricerca europea, Horizon2020 prima trattati, mostrano con chiarezza la tensione verso l’orientamento di uno scenario di pratiche poco evoluto attraverso un approccio top-down. Per quanto riguarda l’istruzione e la formazione, l’open education è oggi al centro dell’attenzione nella programmazione politica e il relativo finanziamento di azioni mirate a sviluppare e valutare l’impatto ed efficacia di pratiche, con uno scenario dove dilagano le innovazioni ma vi sono poche adozioni istituzionalmente sistematiche (Muñoz et al., 2016).
Infatti, il termine “Open” che oggi orienta orizzonti di pratica per il lavoro accademico, comporta da un lato l’evoluzione della relazione che il termine Open ha con le pratiche e gli strumenti digitali associati sia alla ricerca scientifica, sia alla didattica universitaria; e dall’altro la presenza di i valori e approcci epistemologici dei vari ambiti disciplinari contribuenti al dibattito scienza, educazione e società.
Procederemo separando inizialmente i due ambiti tematici legati alla professionalità accademica, poichè le linee evolutive degli stessi hanno percorso strade verosimilmente diverse. Tuttavia, sarà il nostro obiettivo ultimo cercare di individuare le linee di convergenza tra open science e open education, riconducibili all’ipotesi più ampia sulla quale sto lavorando, ovvero quella della digital scholarship come ambito integrato di pratica professionale dove ricerca e didattica risultano concettualmente ancorché operativamente legate.
Prima ancora di cominciare il nostro percorso specifico, pare opportuno tracciare le basi della filosofia dell’aperto, per capirne la forza del concetto. Come enfatizza Materu “Se i novanta sono stati denominati la “e-decade” (e per elettronica), dal 2000 viviamo nella “o-decade” (o per aperta) nella quale si parla di open source open systems, open standards, open access, open archives, open everything. Questa tendenza, che si sviluppa con particolare forza sia nella scienza, sia nell’istruzione superiore, rassicura un’ideologia basata inizialmente sul “networked computing” (Materu, 2004, p.5).
Nella società contemporanea, ciò che è veramente cambiato non sono tanto i valori portanti dell’apertura, quanto il ritmo e il senso di tale condizione, data dalle potenzialità tecnologiche delle ICT e dalle culture digitali che ne conseguono. Abbiamo semplicemente “amplificato” la voce che clamava per l’accesso di tutti a tutto lo sciibile umano. Come osserveremo nelle relative sezioni, mentre il dibattito sulla condivisione della conoscenza scientifica, e in particolare l’accesso alla conoscenza attraverso l’educazione, avevano già sviluppato le idee connesse all’open science e l’open education, le affordance tecnologiche così come altri aspetti socio-culturali della rivoluzione digitali, davano un definitivo slancio al meme opening up (science, education).
Infatti, l’era Internet ha cambiato profondamente le modalità di accesso all’informazione. Il movimento “Web 2.0” e le reti sociali hanno consentito una rivoluzione con riguardo al consumo e produzione di informazione e ai servizi connessi al web. Tapscott & Williams hanno dimostrato che in diversi ambiti c’è stato un punto di svolta basato sull’uso del web; come per esempio diverse sfere produttive, della sanità, i media, aspetti ambientali, la ricerca scientifica e ultimo ma non meno importante, l’istruzione e la formazione. In tali ambiti, la “saggezza delle moltitudini” avrebbe generato forme di innovazione basate sulla libera circolazione e uso dell’informazione (Tapscott & Williams, 2008, 2010). Ci sono stati importanti eventi di supporto all’apertura in ambiti socio-culturali diversificati. Il primo è senz’altro il movimento Open Source condotto da Linus Torvald, che durante gli anni ’90 e dai primi 2000 avrebbe lanciato il codice aperto Unix, ponendo le basi per forme collaborative di code-writing, attività fondamentale della programmazione di software. Il movimento Open Source ha scatenato una serie di reazioni, in particolare quella del reclamo di apertura dei prodotti digitali di ogni tipo, che ha plasmato il cosidetto movimento Open Access (Suber 2009). Quest’ultimo, nello snodarsi del dibattito sulla produzione e condivisione di informazione scientifica, diede luogo all’evoluzione verso l’apertura e trasparenza di tutto il processo di ricerca scientifica, e non solo dei suoi prodotti finali, con particolare riguardo all’apertura dei dati grezzi prodotti. Inoltre, sempre riconducibile agli sforzi di riflessione e agire critico del movimento Open Access, emerge il movimento Creative Commons Licenses, che mira alla messa in discussione della proprietà intellettuale e in particolare della formula “tutti i diritti riservati”.
Questi movimenti hanno un correlato evolutivo sia in ambito scientifico che educativo, come vedremo nei paragrafi specifici.
L’Open Science
Sicuramente l’avvento di Internet ha dato luogo ad un nuovo modo di concepire la comunicazione scientifica. Tuttavia, la questione della produzione scientifica come “cosa pubblica” ha una radice molto più lontana. L’ambiguità del termine potrebbe essere basata nella diversità di portatori di interessi presenti nello scenario del farsi della ricerca scientifica: ricercatori di tutti gli ambiti disciplinari, policy maker, tecnici e operatori di infrastrutture e piattaforme per la condivisione della conoscenza scientifica, e pubblico in generale. Sembra che ogni gruppo abbia un approccio e modo di pensare la scienza (aperta) in un modo diversificato, caricando il termine Open da una polisemia che lo rende si attraente, ma nel contempo confuso per la successiva declinazione operativa e formativa.
Quasi un ventennio fa, nel 1999, il termine e-Science veniva introdotto nel Regno Unito, in un contesto dove si puntava a lavorare su ingenti quantità di dati provenenti dal mondo delle scienze naturali e biologico.
Secondo Jankowski (2007) e-science e cyberscience sono stati i primi due termini associati ad un nuovo modo di fare scienza nell’era digitale. Mentre il primo veniva più associato al contesto di policy making del Regno Unito, il secondo emergeva nel contesto di dibattito degli US. Come i termini lo indicano, la componente fondamentale non era tanto un cambiamento organizzativo o culturale, ma si trattava di una presenza tecnologica che si aggiungeva e iniziava a configurare nuove pratiche. Tuttavia, i discorsi che valevano all’epoca per la rivoluzione Internet permeavano quelli dell’e-science, in quanto si considerava che l’uso di tecnologie avrebbe consentito ai ricercatori di lavorare a larga scala, di condividere risorse e strumenti globalmente e di accedere più efficacemente alla produzione scientifica.
In Australia, attorno agli anni 2000 il governo osservava la necessità di un cambiamento radicale nel modo di fare scienza, e coniava nel 2006 il termine “e-Research”. Lo stesso si riferiva all’uso delle affordances tecnologiche per portare avanti una scienza di qualità basata su: comunicazioni in rete, repositori istituzionali per la gestione dei dati e le pubblicazioni, accellerazione della collaborazione tra ricercatori, ottimizzazione dell’uso di equipaggiamenti scientitici per l’analisi, elaborazione, visualizzazione, e simulazione di processi a larga scala, basati su raccolte di dati locali.
A dieci anni dell’inizio del XXI secolo, passati i primi tempi di speranza sulla spinta tecnologica rispetto al cambiamento sociale, e con il forte sviluppo dei dibattiti sull’Open Access, si inizierà a parlare di una “eScience” che vada oltre l’efficientismo potenziato dalle tecnologie e abbracci i valori della condivisione della conoscenza scientifica.
Così emergono altri termini, che riportano il nuovo senso di una rivoluzione culturale nel modo di fare e condividere la scienza. Nascono così i termini “networked science” (Nielsen, 2012) e “open science“. Entrambi, ma particolarmente quest’ultimo implicano una serie di assunti ed elementi per l’innovazione nei processi e prodotti del lavoro scientifico:
- Trasparenza nella metodologia di ricerca, l’osservazione e la raccolta dati.
- Accesso e disponibilità pubblica dei dati raccolti, con la potenziale reusabilità degli stessi.
- Accesso e trasparenza nella comunicazione scientifica.
- Uso di strumenti basati sulla rete per facilitare la collaborazione scientifica.
Nel 2012, la Commissione Europea adottava il termine Open Science (Dichiarazione della scienza aperta, Aprile 2012). In tale dichiarazione, si enfatizzava la necessità di rendere accessibile la scienza, in particolare perché finanziata dal capitale pubblico europeo, attraverso:
- Contenuto Scientifico Aperto, proveniente da ricerca finanziata con fondi pubblici.
- e-Infrastrutture aperte, per la ricerca pubblica e privata.
- Cultura della scienza aperta.
Il termine Scienza 2.0. viene coniato (Burgelman, Osimo, & Bogdanowicz, 2010) e impulsato nel contesto di policy making europeo in analogia con la rivoluzione Web 2.0., e ulteriormente adottato nel contesto di policy making europeo (cfr. capitolo precedente) Si evolve in modo parallelo a quello di networked e open science, ma enfatizza l’uso del web per il cambiamento culturale, per:
- Aumentare il numero di autori che collaborano in modo professionale ed amatoriale nel farsi della scienza (poter ascoltare la voce di tutti).
- Aumentare il numero di pubblicazioni scientifiche, grazie alla condivisione di risultati parziali del processo di lavoro scientifico.
- Aumentare la disponibilità di dati per consentirne l’uso in diversi processi comunicativi, scientifici e non.
E’ possibile parlare di un’evoluzione terminologica che focalizza tre aspetti fondamentali:
- L’uso di infrastrutture tecnologiche che consentono di migliorare metodi, strumenti e flussi di lavoro, in particolare sulla raccolta, analisi, gestione, visualizzazione e rappresentazione basata su larghi pool di dati.
- La apertura della scienza al pubblico in relazione alla trasparenza, l’accesso, la disponibilità dei prodotti della ricerca.
- La collaborazione nella ricerca scientifica, che diventa più efficace, coordinata, interdisciplinare e legata a processi di innovazione aperta.
Ma quali sono i valori che portano allo sviluppo di queste tre linee? E’ possibile pensare alla loro convergenza e integrazione oggi?
Secondo Fecher & Friesike (2014) nella letteratura alla base del movimento Open Science possono essere riscontrati approcci argomentativi da caratterizzare in “5 scuole di pensiero”, che introdurremo in estrema sintesi (per una presentazione italiana più estesa si veda (Greco, 2014). Per i suddetti autori, ogni schematizzazione proporrà limiti artificiali, utili tuttavia a scoprire le sfumature di senso e le pratiche che ne conseguono per il fare e comunicare la scienza.
La prima scuola di pensiero è quella “Pubblica”, cui valore fondante è l’obbligo di rendere la scienza accessibile a tutti, ovvero, al pubblico. Il web sociale e il web 2.0 dovrebbero facilitare i ricercatori ad assolvere questo impegno, aprendo i processi di comunicazione scientifica dall’inizio e rendendo la conoscenza scientifica adeguata ai non addetti al settore. Per questa scuola, risulta importante sia l’accesso al processo (Grand, 2015) sia la comprensione del prodotto finale (Cribb & Sari, 2010), alla base di una forte attenzione da parte dei ricercatori verso il pubblico che finanzia il loro operato. Infatti, (Puschmann, 2014) sottolinea che “Scientists must be able to explain what they do to a broader public to garner political support and funding for endeavors whose outcomes are unclear at best and dangerous at worst, a difficulty that is magnified by the complexity of scientific issues.” (P. XX, citato in Fecher & Friesike, op.cit). La “citizen-science” (Catlin-Groves, 2012) è infatti la corrente più spinta nella direzione di una ricerca scientifica che dialoga con il suo pubblico più per necessità che per scelta: dalla rierca ecologica a quella astronomica, la partecipazione di migliaia di osservatori volontari in un processo aperto risulta necessaria proprio ai complessi obiettivi di raccolta dati in certi ambiti disciplinari. Tuttavia, come accenano Powell & Colin (2009) “Most participatory exercises do not engage citizens beyond an event or a few weeks/months, and they do not build citizens’ participatory skills in ways that would help them engage with scientists or policy makers independently.” (p. 327), quindi gli sviluppi di una scienza partecipata e responsiva con riguardo agli interessi pubblici è ancora in evoluzione.
Per la scuola di pensiero “democratica”, il focus principale non è tanto la comprensibilità della scienza e la partecipazione nel farsi della scienza quanto la possibilità che hanno gli utenti di accesso ai prodotti della ricerca scientifica. Tali prodotti riguardano in modo principale le pubblicazioni scientifiche nella forma di articolo su rivista; ma negli ultimi tempi il concetto si è esteso a tutti i prodotti del processo di ricerca quali i dati grezzi, le osservazioni sul campo, le rappresentazioni grafiche e computazionali, oppure materiale multimediale adottato dai ricercatori. Il libero accesso a tutti i prodotti della ricerca converge con la scuola pubblica in quanto la motivazione principale è data dalla fonte pubblica di finanziamento della ricerca. Infatti, una delle principali preoccupazioni per questa scuola è il “doppio finanziamento” della ricerca basato sul pagamento del lavoro scientifico (attraverso il finanziamento di Università ed enti di ricerca) e l’ulteriore pagamento con fondi pubblici dei database scientifici attraverso i quali si accede alle riviste scientifiche, supportati da case editrici internazionali che detengono i diritti d’autore del lavoro dei ricercatori (sia autori, sia revisori). Oltre la gratuità sulla quale si basa il guadagno delle case editrici su indicate, l’aspetto estremamente criticato è il comportamento monopolico delle suddette aziende, legato soprattutto ad una crescita dismisurata basata sulla relazione tra pubblicazione, produzione di metriche e utilizzo delle stesse metriche per la valutazione della qualità della ricerca. Ne consegue che l’avanzamento di carriera del ricercatore è basato su prodotti commerciali, ad accesso limitato, aspetto che alimenta un circolo che si autoalimenta, e dal quale è a tutt’oggi difficile uscire (Valente, 2003).
La rivoluzione dell’Open Access è stata giustificata quindi attraverso diverse argomentazioni legate all’impatto che il libero accesso alla ricerca scientifica potrebbe avere. Dalla visibilità della ricerca scientifica, maggiore citazione e quindi opportunità di avanzamento di carriera si passa al più veloce avanzamento della costruzione di conoscenza scientifica (Phelps, Fox, & Marincola, 2012). Tale impatto si allarga non solo ai paesi sviluppati produttori di scienza; infatti, esso apre finestre di opportunità per i paesi in via di sviluppo che banalmente potrebbero essere identificate come l’applicazione e l’innovazione supportata dalla conoscenza scientifica, ma che in scenari più utopici potrebbero andare nella direzione della collaborazione globale scientifica (Rufai, Gul, & Shah, 2012).
La terza scuola, detta “Pragmatica” da Fecher & Friesike, propone una prospettiva giustamente funzionale sulla scienza aperta, ovvero quello di fare la ricerca più efficiente. Per questa scuola l’efficienza si conquista attraverso varie operazioni, come rendere il processo di creazione di conoscena scientifica più modulare, includendo conoscenza esterna alla comunità scientifica, oppure supportando la collaborazione attraverso tutti i canali web, non solo quelli tradizionalmente adottati in ambito accademico. La nozione di “open” per questa scuola si allinea in buona misura a quella dell’innovazione aperta. Per gli autori convergenti in questa scuola, una sola persona non può gestire lo sciibile di un ambito scientifico e quindi non sarebbe in grado di giudicare complesse situazioni, diventando la collaborazione la via maestra per la produzione scientifica efficiente (Tackle, 2008; Nielsen, 2012); si pensi solo al processo di scelta della più adeguata e rilevante ipotesi o domanda di ricerca che orienta tutto l’ulteriore lavoro scientifico. Concetti come creazione di capitale sociale (Haeussler, 2011) costruzione di conoscenza in reti di collaborazione scientifica (Nielsen, 2012) o appropriazione delle affordances tecnologiche (Neylon & Wu, 2009) sono stati associati ad una migliore produttività. E’ di fatto la produttività scientifica che prevale come valore per questa scuola, oltre gli aspetti positivi osservati nella collabora sprona e orienta l’uso di tecnologie innovative come i social media, o la tendenza a condividere e costruire conoscenza in rete. Inoltre, vengono puntualizzate le difficoltà e barriere culturali che l’uso di strumenti aperti può generare; in questo senso tali strumenti (dai software ai dispositivi sociali di condivisione) vengono percepiti come ostacolo alla produttività, sicuramente da superare nella progettazione di sistemi e flussi di lavoro scientifico.
Dal focus proprio della scuola pragmatica sull’uso e appropriazione da parte degli scienziati degli strumenti digitali per rendere il proprio lavoro più efficace attraverso la collaborazione, la condivisione e la costruzione congiunta di conoscenza, passiamo al focus assolutamente materiale della scuola infrastrutturale.
Per quest’ultima, il punto fondamentale risiede nell’adeguata predisposizione di infrastrutture digitali che supportino le pratiche emergenti della ricerca. In generale, si tratta di strumenti software, applicazioni, librerie digitali e social network accademici. Quindi, la scienza aperta rappresenta soprattutto una sfida tecnologica, per la quale risulta necessario comprendere e facilitare le richieste dei flussi di ricerca ai sistemi. Si pensi per esempio alle necessità di spazio di archiviazione e di velocità di processamento che la gestione di grandi masse di dati nel cloud possono creare per un gruppo di ricerca internazionale. La letteratura afferente a questa scuola è basata su casi specifici, come la Open Science Grid, MyExperiment, the Semantic Grid, ecc. Questi studi si basano sullo sviluppo e testing di infrastrutture distribuite che potenziano la condivisione del workflow scientifico, l’archiviazione distribuita dei dati, la condivisione di software per la gestione e analisi dati, e chiaramente il supporto alle comunicazioni tra gruppi di ricerca. I casi documentano sia lo sviluppo, sia l’evoluzione nell’uso e impatto delle infrastrutture (Altunay et all., 2011, De Roure et al, 2010). Nonostante questa scuola di pensiero abbia uno sguardo prettamente empirico, casistico e molto centrato sull’area delle scienze computazionali, la questione delle infrastrutture risulta centrale e ricorrente anche per il resto delle scuole. Senza appropriate infrastrutture, non sarebbe possibile la condivisione di dati aperti, né tanto meno la pubblicazione Open Access. E’ a partire da questa scuola che si apre la comprensione sulle affordances tecnologiche diversificate di Digital Libraries o repositori istituzionali aperti e le reti sociali accademiche più generaliste (come Researchgate o Academia.edu) e quelle che a partire dal centrale ruolo di condivisione di dati aggiungono elementi “social”, come Zenodo o Figshare (Borrego, 2017; Lovett & Rathemacher, 2016).
La scuola “valutativa” (in inglese “measurement” potrebbe non avere un suo specifico correlato in italiano, essendo “misurazione” poco comprensibile; traduzione in italiano su Greco, 2014, p.30) sarebbe la quinta scuola. Lo scopo fondamentale per questa linea di autori è trovare forme alternative di valutazione della produzione scientifica. Dal momento in cui l‘impact factor, conformato sul numero medio di citazioni ottenuto da un articolo in una data rivista, è stato usato come parametro fondamentale nella costruzione di reputazione e quindi nell’avanzamento di carriera di un ricercatore, la questione della scienza aperta passa necessariamente attraverso questo binario. Infatti, se la scrittura in riviste ad accesso aperto, oppure la pubblicazione di pre-prints in repositori istituzionali; o addirittura il blogging accademico, con la raccolta di riflessioni su una ricerca in corso, non sono prodotti di lavoro accademico riconosciuti poiché non rientranti nei parametri di valutazione bibliometrici, sarà estremamente difficile che tali prodotti siano eseguiti dai ricercatori. Di fatti, la situazione attuale della valutazione della ricerca per l’avanzamento di carriera ha dato luogo a situazioni dispari tra ricercatori junior e senior. Se questi ultimi si sentono sicuri della propria produzione e potrebbero tendere ad adottare forme più innovative e aperte della comunicazione scientifica, la loro minore padronanza delle tecnologie digitali potrebbe portarli lontani dalla strada di una scienza aperta al modo voluto dalle scuole democratiche e pubblica. Tuttavia, per i giovani ricercatori, la situazione non è migliore: la migliore performance e motivazione ad adottare strumenti digitali nuovi, che potrebbero supportare forme di scienza aperta, viene bloccata dalla necessità di consolidazione della propria carriera (Nicholas et al., 2017). Sembra impossibile non considerare l’aspetto della valutazione della qualità della ricerca in relazione al farsi di una scienza progressivamente aperta: per quanto le utopia dell’accesso e la gratuità della conoscenza racchiudano in sé instimabili valori, risulta evidente che la variabile di aggiustamento del sistema sono i ricercatori, in particolare coloro che devono affermare la propria presenza nel mondo accademico, e cioè, una ampia base della piramide. Tuttavia, in alcuni casi vi è un’impatto della comunicazione scientifica aperta sulle forme più tradizionali di riconoscimento di qualità del lavoro scientificio. Per esempio,(Priem & Costello, 2010) hanno verificato l’impatto dell’uso di Twitter nelle citazioni tradizionali; e Stewart (2015) ha verificato come la costruzione della reputazione e la visibilità del lavoro scientifico con conseguente impatto citazionale può essere supportata dall’uso del micro-blogging. A questo punto, una tendenza emergente dal approccio critico alla valutazione nella comunicazione scientifica tradizionale e non aperta, ha portato a pensare a nuove metriche per la valorizzazione del lavoro di ricerca: ci riferiamo in particolare alle altmetrics (Galligan & Dyas-Correia, 2013). Le altmetrics propongono sistemi di valutazione basati sulla presenza del lavoro scientifico in ambienti non tradizionali di comunicazione scientifica (dai pre-prints a documenti di lavoro che mostrano ampiamente ricerche in corso, condivisi su blogs) sulle quali è possibile raccogliere “clicks” o “likes” o “condivisioni”, come forme di disseminazione della comunicazione scientifica (Roemer & Borchardt, 2012). Il dibattito è in corso, non senza opponenti: le nuove forme di valutazione racchiudono rischi e insidie date dall’abuso di meccanismi (come la condivisione) sempre legati alla necessità di avanzamento di carriera.
L’Open Education
Come possiamo osservare attraverso la disamina dei vari sensi assegnati al termine Open in ambito scientifico, esso parte da obiettivi epistemologici e deontologici diversificati; orientando interessi di ricerca e raccomandazioni diversificate.
In uguale modo, i principi dell’apertura educativa non sono interamente nuovi. E’ bene ricordare diversi movimenti pedagogici che ricordano l’importanza dell’accessibilità e della qualità per tutti, valori alla base di filosofie educative che si sono sviluppate lungo il XX secolo dai discorsi a sperimentazioni più o meno avanzate.
Per cominciare, è bene ricordare il movimento americano dell'”Open Classroom” che sorge tra gli anni 60 e 70, l’idea di “descolarizzare la società di Ivan Illich (Illich, 1971), così come i concetti di educazione degli adulti di Paulo Freire (Freire,[1970], 2000), per non parlare la campagna UNESCO degli anni 70 “Educazione per tutti” o la Dichiarazione Universale dei Diritti Umani delle Nazioni Unite di 1948. Quest’ultima per esempio esprimeva in questi termini un approccio all’educazione aperta: “l’educazione dovrebbe essere libera, per lo meno nei livelli elementari” (Nazioni Unite, 1948, Art.26, para.1, citato in D’Antoni&Savage, 2009, p.138). Ci sarebbero addirittura pensatori che avrebbero anticipato queste idee durante la prima metà del XXmo secolo. Peter & Deimann (op.cit) avrebbero fatto una ricostruzione storica che rintraccia le idee dell’apertura in forme di educazione degli adulti allo stato “embrionico” di apertura nelle società occidentali. Loro menzionano le lezioni aperte di esperti finanziati da partecipanti indipendenti durante il medioevo alla base dell’ulteriore concetto di Università; l’invenzione delle biblioteche pubbliche del Rinascimento; e la rivoluzione dell’autoformazione durante l’Illuminismo. Arrivati al XIX e XXmo secolo, la scuola pubblica potrebbe essere considerata la base di un progetto di apertura dell’istruzione e la formazione a tutti. Più recentemente, il caso più citato è quello della Open University del Regno Unito, fondata negli anni 60, la quale rimosse tutte le barriere di accesso all’istruzione superiore ammettendo studenti senza qualifiche formali. Peter & Deimann hanno citato ulteriormente l’esempio dell’università di Buenos Aires, interamente aperta e gratuita, come caso alla base di una riforma istituzionale nazionale iniziata nel 1918 e strettamente connessa a valori di sviluppo politico-sociale. Nel caso italiano, diversi pedagogisti e filosofi dell’educazione hanno contribuito a mettere in evidenza il valore dell’apertura e del accesso. Banzato (2012) ha indicato che il movimento “open” in Italia è basato sul pensiero di Antonio Gramsci (1947), sul movimento di “Cooperazione Educativa” del 1951, e il famoso caso della scuola di Barbiana (1967).
Lungo questo ex-cursus, risulta evidente che i valori portanti dell’Illuminismo (libertà, eguaglianza, fraternità) alla base di movimenti socio-politici dell’età contermporanea e particolarmente della democrazia come idea di società evoluta, sono incorporati nei discorsi sull’apertura (Peters, 2008). Inoltre, il farsi di una conoscenza (come impegno più alto dell’umanità) che sia accessibile e condivisibile, è alla base della filosofia educativa cui scopo principale è lo sviluppo individuale legato a quello socio-culturale (Wiley & Gurrell, 2009).
Come possiamo osservare, la rivoluzione digitale ha spinto i limiti e aspettative dell’utenza finale con riguardo all’accessibilità di diversi prodotti e servizi digitali, tra cui le risorse didattiche digitali o Open Educational Resources. Avere accesso aperto ad un numero importante di risorse è la base non solo per informarsi, ma anche per scambiare conoscenze, condividerle e crearne nuove. Quindi l’apertura della conoscenza “alta” genera forme di co-produzione dal basso che una volta ancora, mette in discussione il farsi della conoscenza (scientifica e non), e soprattutto delle forme didattiche basate sulla mera trasmissione di informazione.
Nell’ambito pedagogico osserviamo l’emergere di nuovi metodi e strategie didattiche basate sempre sul valore dell’apertura, dell’accesso e del coinvolgimento in processi dialogici dove la conoscenza viene discussa, condivisa e ricostruita (Seely Brown & Adler, 2008). Le istituzioni dell’istruzione e della formazione dalla Scuola all’Università vengono scosse dalla presenza di nuovi ambienti digitali come i social media e si interrogano nel modo più adeguato di adottarli (Manca & Ranieri, 2016). L’Open Education pone forti basi per la ricerca e pratica pedagogica nello spingersi verso il cambiamento di tradizioni basate sulla trasmissione dell’informazione, ma anche nella necessità di riconoscimento di forme e itinerari personalizzati di apprendere (Camilleri et al., 2012). Dopo il successo del Open Course Ware (OWC) del MIT; il concetto di Open Educational Resources coniato da UNESCO nel 2002 (UNESCO, 2015) seguito da quello di Open Educational Practices (Ehlers & Conole, 2010); e della recente iperbole dei MOOCs (Daniels, 2012; Young, 2013), ci avviamo ad uno scenario dove tutte le istituzioni educative verranno spinte, volenti o nolenti, verso la progressiva inclusioni di forme di openness educativa.
La questione dell'”openness” nell’istruzione e nella formazione è stata definita un “paradigma emergente di produzione sociale (Peters, 2008). Per Sir John Daniels (2012) Presidente e Direttore esecutivo del Commonwealth of Learning “L’educazione aperta ha rotto con il triangolo di ferro dell’accesso, il costo e la qualità che aveva costretto l’educazione attraverso la storia e aveva dato luogo a insidiose ipotesi prevalenti ai nostri giorni nelle quali l’istruzione e la formazione non può essere detta di qualità se non è esclusiva” «Open education broke open the iron triangle of access, cost and quality that had constrained education throughout history and had created the insidious assumption, still prevalent today, that in education you cannot have quality without exclusivity”.
Open Science e Open Education: Verso la trasformazione della pratica accademica
La transizione verso una comunicazione scientifica aperta implica un profondo mutamento culturale (Bartling & Friesike, 2014). E tale comunicazione scientifica, diventa poi la base di una didattica aperta, sperimentale e collaborativa, che adotta va oltre la trasmissione e si cimenta nei metodi stessi della ricerca disciplinare per una didattica universitaria attiva e autentica (Ghislandi, 2005). Certamente il web consente a delle epistemologie latenti di rivelare le dinamiche della produzione di conoscenza tradizionale, mettendo in evidenza le forme di emarginazione , nascoste alle predominanze tradizionali (Weinberger, 2012). Apre inoltre a nuove forme di collaborazione e di condivisione che potrebbero avere impatto in processi di riqualificazione della scienza e supporto allo sviluppo socioculturale in una più equa relazione globale (Wagner, 2008).
Come ho tentato di dimostrare prima i nuovi canali di comunicazione hanno sempre aperto nuove strade per l’accesso alla conoscenza. Tuttavia le logiche di potere e le tradizioni associate alle pratiche richiederanno un impegno sostenuto per generare un cambiamento che non è scontato neanche per i giovani ricercatori (Nicholas et al., 2017). Occorreranno meccanismi di riconoscimento per l’avanzamento di carriera (legato agli oggetti di attivismo della scuola “valutativa”), ma non solo: sarà fondamentale promuovere risorse, strumenti e modelli formativi per conoscere e comprendere l’impatto dell’Open Access (oggetto d’interesse della scuola democratica); per sensibilizzare ai valori portanti della scienza come cosa pubblica (oggetto della scuola pubblica); per adottare attivamente strumenti digitali che facilitino i suddetti processi di apertura (scuola infrastrutturale). Se da un lato occorrono sistemi istituzionali a supporto della scienza aperta, dall’altro gli accademici devono impegnarsi, ovvero sia, diventare attivisti del Open, per poter far nascere pratiche diffuse dalla forza intrinseca delle idee dell’Open Science e Open Education.
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